IL CIBO NELLA STORIA
Garum, il ketchup di
2000 anni fa
a cura di : Claudia Cepollaro
Siete
ma stati negli Scavi di Pompei? Se vi capiterà di
andarci, salterà subito all’occhio che in ogni angolo delle strade c’è un Thermopolium, nome delle taverne dell’antica Roma dove si poteva
pranzare o fare uno spuntino. Qual’era
la specialità dell’epoca? Se con una macchina del tempo ci catapultassimo
2000 anni in dietro nel tempo il taverniere risponderebbe sorridente :”senza
ombra di dubbio… il Garum!”
Tralasciando i gusti personali che ogni romano
sicuramente aveva, se teniamo conto delle tante citazioni nei testi antichi del
Garum e i ritrovamenti archeologici delle miriade di anfore che lo contenevano,
era di certo uno dei cibi più consumati.
Come il nostro Ketchup, era una salsa,
densa o liquida a seconda della qualità, usata come condimento da accostare a molti piatti, con la differenza che
nasceva dalla fermentazione di interiora di pesce unito a dell’altro
pesce salato. Indispensabile nella
lavorazione del Garum era il sale, perché, come ci racconta Plinio il Vecchio,
è l’ingrediente che, se dosato nella giusta quantità, non consente al tutto di
diventare una “puzzolente putrefazione”
di “pesci guasti” .
Il Garum è di origine
greca e deriva dal nome di un pesce, il Garon o Garos (γάρον),
che gli ellenici usavano per preparare il famoso condimento. Molti studiosi
hanno visto nella “colatura d’acciughe”
prodotta a Cetara, nella Costiera Amalfitana, la sua parente più stretta, in
realtà forse il sapore è simile ad una salsa di pesce della cucina Vietnamita, il Nuoc Man, che infatti è usata
nell’estremo Oriente sempre come condimento.
Baelo Claudia, la città del Garum
Se esisteva il prodotto c’era sicuramente un’azienda che lo produceva, questo è
quello che hanno trovato gli archeologi a sud della Spagna, nella provincia di Cadice,
precisamente a 22 Km da Tarifa, città che affaccia sullo Stretto di Gibilterra. Li sono stati trovati i resti di un’ antica
città di pescatori chiamata Baelo Claudia.
Oggi i resti sono conservati all’interno del Parco Naturale dello Stretto (Parque
Natural del Estrecho) e oltre a mostrarci tutti gli elementi tipici di una
città romana, ha riportato alla luce i resti di un’azienda che
produceva Garum. Lo si capisce dalle tante vasche profonde e dal
fatto che si trova proprio vicino alla spiaggia. Quindi i pescatori
prendevano il pesce, lo portavano nell’azienda dove lo ripulivano e lo
tagliavano a pezzi , e lo scarto costituito dalle interiora e dalla testa del pesce veniva salato e messo nelle vasche in modo da
aspettare che il contenuto fermentasse per poi venderlo nelle anfore, molte delle
quali sono state trovate nell'Insula
di San Paolo alla Regola a Roma e a Pompei. Quello della Spagna era, secondo Plinio il Vecchio, il Garum
migliore perché, essendo un prodotto di origine greca, la Spagna è
stata dominata dai Fenici e dai Cartaginesi che non usavano tutti
i pesci ma alcuni in particolare, come gli sgombri.
La lavorazione
Sulla lavorazione importanti sono state le
testimonianze Gargilio
Marziale, autore vissuto nel III sec. d.C. che ci dice “Si usino pesci grassi come sardine e
sgombri cui vanno aggiunti, in porzione di 1/3, interiora di pesci vari.
Bisogna avere a disposizione una vasca ben impeciata, della capacità di una
trentina di litri” . Oltre questo sottolinea l’importanza
dell’aggiunta di aromi dal sapore
forte da mettere sul fondo della vasca “aneto,
coriandolo, finocchio, sedano, menta, pepe, zafferano, origano” sui quali
si riverserà tutto i pesce. Il tutto
andrà ricoperto da uno “strato di
sale alto due dita” e “lasciato
riposare al sole per sette giorni”. Per altri venti si dovrà “mescolare”
fino all’ottenimento di un liquido denso che è il Garum.
Più precise sono le Geoponiche, di autore ignoto, che arricchisce il racconto di
Marziale, dicendo che il risultato che si avrà è la formazione del “liquamen”
la cui parte liquida raccolta sarà il Garum, mentre la parte solida diverrà
“allec”. C’era anche la versione casalinga del garum che si ottiene bollendo le
interiora del pesce facendole scolare oppure quella fatta con le sole interiora
del Tonno chiamato “aimation".
Sulla qualità come detto prima, Plinio il Vecchio ne
la Naturalis Historia aveva parlato della Spagna come luogo di produzione
migliore di Garum, anche il prezzo cambiava naturalmente e solo i ricchi
potevano accedervi, come racconta Apicio,il primo gastronomo vissuto tra il 25
a.C E IL 37 d.C che nel suo libro “De re coquinaria” parla
dei suoi ricchi banchetti e di 20 piatti ottimi se accompagnati con il GARUM.
Il garum sociorum, quello di miglio qualità, era usato anche come
ottimo digestivo, disinfettanti, e medicinale contro la scabbia degli
ovini, le ustioni recenti, i morsi dei cani e del coccodrillo, per guarire le
ulcere, la dissenteria e i malanni delle orecchi.
::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::
Cibo nel Medioevo. Cosa
si mangiava?
Siamo nel Medioevo in un castello e
ci chiamano, con un bel campanaccio, per andare a mangiare. Cosa troveremo in tavola?
Ci Imbatteremo in una disposizione di cibi, posate e oggetti vari molto diversa
da oggi.
In primis non
troveremo ne patate ne pomodori che furono introdotti in Europa solo dopo la
Scoperta dell’America, e noi con questo viaggio nel tempo siamo ben 300 anni
prima di Colombo.
Via dunque tutto ciò che proviene dall’America come il
mais, il caffè, il tabacco ed il peperoncino. Non fumerete dunque ma
berrete sicuramente tanto vino preferibilmente allungato. Insaporirete il cibo
con molte spezie, dunque niente ketchup o maionese ma pepe, zenzero,
cannella, chiodi di garofano e zafferano.
Una volta a tavola
alternerete cibi dal sapore deciso, che dovevano sposarsi con la grande
acidità della panna che al tempo aveva un gusto aspro e veniva usata anch’essa
per accompagnare i piatti; con l’agrodolce, perché spesso la selvaggina
o il pollame si mangiava con l’aggiunta di zucchero o fichi secchi; e con l’aspro,
causato dallo zucchero e dai prodotti usati per conservare i cibi come l’aceto
… ricordiamoci che il Frigorifero non esisteva ancora.
Va aggiunto che le
portate maggiormente apprezzate erano quelle più curiose alla vista dunque vi
troverete di fronte portate con cibi impiattati
in modo particolare con accostamenti
di colori diversi o che nascondo sotto un tipo di pietanza dell’altro
tipo di cibo. Se ci pensate il presentare dei piatti in modo artistico è in
voga oggi in tutti i più grandi ristoranti ma questa pratica già c’era nel Medioevo.
Qui però parliamo di
una tavola di Signori ricchi perché il popolo non poteva permettersi tutto
questo andando verso zuppe di verdure, piatti a base di latte o cereali,
frutta fresca o secca e, a partire dal XII secolo, anche verso uova e galline
grazie alla possibilità delle famiglie più povere di acquistare animali da
cortile.
Prima di mangiare diamo
uno sguardo ai condimenti coi quali si cuoceva il cibo. Oggi si usa
generalmente il burro a nord e l’olio a sud ma nel Medioevo la situazione era
diversa. L’olio era usato preferibilmente solo per le insalate mentre
per friggere o cucinare si usava il grasso del maiale detto lardo o strutto, che
veniva sostituito dall’olio solo quando mancava.
Al latte vaccino o di
provenienza animale si preferiva il latte di Mandorle perché più a lunga
conservazione oltre che le Mandorle stesse usate per il loro sapore
dolciastro e per il colore che davano ai piatti o ai dolci molto apprezzato al
tempo. Anche le uova, che da sole fungevano da piatto a se, veniva usato
come legante un po’ come oggi. Anche l’aceto fatto con il vino “andato a male”era
usato per condire.
Stanno arrivando i
piatti ma non possiamo parlare di cibi suddividendoli come facciamo oggi
con le definizioni di primo, secondo, contorno,frutta e dolce perché questo
ordine si diffonderà solo a partire dal’1800.
Nel Medioevo il pranzo
si svolgeva diversamente e parliamo sempre e comunque delle tavole dei nobili.
In Francia le portate venivano disposte tutte insieme sulla tavola senza
un ordine preciso, in altre parti d’Europa il tipo di cibo da dare ad ogni
singolo commensale e la qualità di esso dipendeva dal commensale stesso secondo
un ordine gerarchico. In linea generale si cominciava con frutta
fresca di stagione ed insalate. Seguivano le carni preferibilmente
arrostite.
Poi il dessert nel quale si servivano dolciumi che erano
principalmente spezie confette allo zucchero o frutta e seguiva “l’issue de
table “ composta da formaggi , frutta candita e dolci leggeri spesso
accompagnati da ippocrasso o malvasia. Per finire, in un’altra stanza
si degustava il “boute-hors” (letteralmente “caccia fuori”) che consisteva
nel mangiare prodotti che favorissero la digestione o pulissero la bocca come
il coriandolo e lo zenzero canditi, prodotti che bisognava masticare molto.
In Italia si potevano
trovare, nell’ordine detto prima, ravioli o lasagne in brodo, carni lessate o
arrostite, selvaggina , e, per concludere, torta di frutta e spezie.
Capitava spesso di
incrociare formaggi prodotti più con latte di pecora che con quello di mucca
delle volte con l’aggiunta di erbe.
Si mangiavano anche arrostiti alla griglia ed insaporiti con zucchero e
cannella o fusi e spalmati su crostoni di pane. Il burro invece era prodotto
ancora come al tempo dei romani.
Nel Medioevo si usava
raramente il miele come dolcificante a differenza dei romani che ne facevano
largo uso. Per dolcificare i ricchi usavano lo zucchero che era comunque
ancora troppo costoso per questo veniva spesso sostituito con vini dolci, mosti
naturali, frutta secca, uva, datteri e prugne.
Da bere oltre l’acqua c’erano il vino
e l’agresto, un succo estratto
dall’uva prima che giungesse a
maturazione. Si bevevano anche succhi di altri frutti come gli agrumi
.
Il Vino del tempo era invece meno
equilibrato c’è però una differenza tra i vino prodotto prima e dopo l’Età
Comunale. Nell’Alto Medioevo il vino era mantenuta ad un basso grado alcolico ed era allungato con
vari ingredienti secondo il gusto cioè con l’acqua o con il mosto cotto e
poteva essere anche aromatizzato con l’aggiunta di spezie e frutta.
Nel
Basso Medioevo invece c’è il salto di qualità diventando il papà del nostro
vino, verrà lavorato cioè secondo regole che rispettino la separazione dei
vitigni ( distinguendo il vino rosso da quello bianco e dunque non mescolando
più l’uva) e il processo di vinificazione ( c’è un controllo delle diverse fasi
di produzione). Il Vino veniva servito in coppe di metallo o in coppe di
legno.
Tornando ai tempi di oggi possiamo concludere che molte cose sono cambiate
da all’ora ma molti elementi della cucina medioevale sono rimasti o, quelli
spariti, sono stati da base per molte delle nostre ricette moderne.
Testo di:
Claudia Cepollaro
(Aries13Leo23)
::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::
Gli Struffoli- Il "piccolo" avvolto nel miele
Gli Struffoli sono un composto caratterizzato da uno
speciale impasto, aromatizzato ai profumi d’arancia, con caratteristiche
specifiche di pasticceria quali l’essere delle piccole palline con non più di 1
cm di diametro, fritte in olio o nello strutto, con una tipica preparazione
estetica.
E’ un dolce natalizio di Napoli, anche se si trovano diverse
varianti degli Struffoli in altre Regioni d’Italia.
Ma sorprenderà soprattutto il sapere che la vera origine
degli Struffoli risale al tempo della
Magna Grecia, e parliamo dell’ VIII-VII sec. a.C. quando lo “Struffolo” fu
portato in Italia dai greci e si chiamava “Strongolous” che vuol dire: Arrotondato.

Dal punto di vista allegorico invece ,in epoca
greca, gli Struffoli dovevano servire per esaltare la dolcezza del miele in quanto
simbolo di vita che nasce dalla morte.
Il miele ha avuto sempre un valore rituale e religioso molto
elevato, il suo nome deriva dall’Ittita “Melit” e aveva qualità sacre:
- E’ Trasparente: per permettere all’uomo di vedere oltre
quello che vedeva, cioè di scoprire il vero significato di una cosa,
soprattutto se donata o sacrificata.
- E’ Dorato: colore
pari all’oro, che sottolinea la ricchezza di ciò che c’è sotto anche se oro non
è.
- E’ Dolce: sapore che rende felici ed appagati nell’animo.
Per di più, simbolicamente, metterlo sulle labbra dei bambini,
era un augurio che mangiandolo potesse accrescere il fisico e la conoscenza.
Dunque una piccola pallina “lo Struffolo” che alla vista
appare come qualcosa di piccolo e di poco valore, una volta circondato dal
miele, mostra il suo vero valore, l’amore che esso contiene.
Da qui lo Struffolo che a Napoli, nel periodo natalizio,
diviene un simbolo religioso identificando Gesù Bambino, piccolo alla vista
dell’uomo ma la persona più importante per Dio, e che solo il miele ci consente
di vedere il suo valore divino e dunque di riconoscere la grandezza di Dio, che
per amore dell’uomo sacrifica il suo unico figlio.
Per di più, poiché il miele simboleggiava il passaggio dalla
morte alla vita, preannuncia la Resurrezione di Cristo.
Anche i canditi e i confettini colorati,che a Napoli si
chiamano “Diavulilli”, sono aggiunti come decorazione finale, a ricoprire gli Struffoli, per ricordare un po’ tutti i personaggi che ci sono nel Presepe.
A Napoli, inizialmente gli Struffoli venivano preparati solo
nei conventi che avrebbero donato il dolce alle famiglie nobili che si sono
distinte per atti caritatevoli. Ma in seguito anche le famiglie più povere, che
potevano permetterselo solo a Natale, lo preparavano soprattutto per i bambini.
Quando la reperibilità del cibo
era un problema in Europa
Entrare in un supermercato al giorno d’oggi e trovare tutto a portata di mano dal punto di vista alimentare è normale per chi vive nell’Europa del XXI secolo. Ma facciamo un salto indietro di 70 anni e catapultiamoci nell’Europa della II Guerra Mondiale, una delle guerre più terribile che l’umanità abbia mai conosciuto. Durante la guerra una delle carenze più grandi è stata senza dubbio quella del cibo.
La mancanza di cibo è stato un problema percepito ed affrontato in modo diverso in ogni singolo stato europeo, è l’est però, protagonista di aspre battaglie tra l’esercito tedesco di Hitler e l’Armata Rossa della Russia, ad aver vissuto lunghi momenti di carestia. Si passava dalla mancanza di prodotti solo di importazione a quelli di prima necessità che, nei casi più gravi, scarseggiavano per lungo tempo provocando la morte di molti. Ma andiamo a vedere caso per caso.
-Mancanza di prodotti di importazione
Il problema nasce dal blocco del trasporto in Europa dovuto al danneggiamento delle infrastrutture e delle vie di comunicazione per via dei bombardamenti.
Il caso meno grave si registrò in Inghilterra dove mancarono solo i prodotti provenienti dal continente europeo come le arancia o dall’Africa come le banane. Invece in paesi come l’Italia o la Francia le grandi città furono carenti anche degli alimenti prodotti dalle loro stesse campagne o dalle loro industrie alimentari perché difficile da trasportare senza che andassero a male o perché inviate all’esercito.
![]() |
La povertà ai massimi livelli |
Prodotti come le uova, la carne, il latte, il burro e le verdure gli stati provvidero a distribuirli per Razionamento principalmente ai soldato e ai malati; la popolazione invece tentò di sostituirli con uova in polvere, margarina e verdure comprate al mercato nero o, solo per chi aveva un appezzamento di terra, con le uova delle proprie galline e con l’allevamento dei conigli, usati come carne.
-I tedeschi se ne appropriano
Vedremo che una delle tecniche per risolvere la carenza di cibo e il Razionamento, cioè lo stato doveva in teoria distribuire lui stesso i prodotti alimentari alla popolazione. Ma quando lo stato era controllato da un popolo invasore, come nel caso dei territori conquistati da Hitler, le riserve di cibo venivano prese e portate in Germania, togliendole così alla popolazione a cui realmente era destinato.
Tutto questo con il fine sia di indebolire un popolo nemico, è il caso della Polonia o di molti ghetti ebraici, e sia per la mancanza in Germania di cibo soprattutto per i soldati che necessitavano di molte kilocalorie per combattere.
-I Razionamento sbagliato
In Grecia per esempio l’anarchia amministrativa portò il paese nel caos e non fu più distribuito cibo alla popolazione, chi poteva si affidava al mercato nero ma i prezzi erano troppo alti. Tutto questo causò nel 1942 una grave carestia che si risolse solo con un accordo tra la Germania e l’Inghilterra che consentì alle navi inglesi di raggiungere la costa e distribuire il cibo. Per la carestia in Grecia morirono 250.000 persone.
![]() |
Andamento delle disponibilità Pro- capite per diverse tipologie di Carne dal 1865 al 2015 |
Risoluzione del problema alimentare:
Naturalmente gli Stati europei tentarono in modi diversi di contrastare l’emergere cibo avvolte riuscendoci e avvolte no. La tecnica più usata fu:
-Il Razionamento
![]() |
Razionamento della mensa di un soldato Alleato |
Consisteva nella distribuzione equa del cibo a tutta la popolazione mediante lo stato e le sue istituzioni. Questa tecnica fu importante in Inghilterra dove tutti ricevettero il cibo necessario per la sopravvivenza indipendentemente dalla loro posizione sociale, solo i soldati ricevevano più cibo per poter combattere. Il Razionamento fallì dove erano i tedeschi a distribuirlo perché in quel caso più che al popolo pensarono ai propri soldati.
-Il Mercato Nero
Dove gli stati non distribuirono bene o affatto il cibo i produttori destinavano sotto banco gli alimenti al mercato nero che però presentava pro e contro.
I pro erano che i civili potevano comprare il cibo che lo stato non avrebbe mai distribuito loro, però i contro furono i prezzi elevati dei prodotti, spesso volutamente alti, perché i venditori lucravano vendedoli solo quando la richiesta era alta. Quindi solo i più ricchi potevano veramente accedere a quei prezzi.
-L’Arrivo Alleato
La fine della guerra e gli aiuti alleati furono l’unico modo per far finire il problema della fame. Avvenne in Olanda dove l’Inghilterra per inviare gli aiuti alimentari dovette aspettare la liberazione dell’intero paese per evitare che i tedeschi si appropriassero dei beni alimentari. Questo accade in tutto il resto dell’Europa anche se ci vorranno anni e la ricostruzione delle infrastrutture e delle industrie per avere il ritorno del cibo in modo regolare.
a cura di: Claudia Cepollaro
La Giovine Historia
Storia e cibo: I Gusti dell'Antichità, riportati all'Epoca Moderna.
a cura di : Claudia Cepollaro
Quando parliamo della tradizione culinaria italiana spesso
facciamo riferimento a quella dieta Mediterranea che ha una storia più giovane
se consideriamo il modo di vivere il mondo culinario dei nostri più illustri
antenati : gli antichi romani. La dieta Mediterranea presenta infatti alimenti
come pomodori, patate peperoni che sono giunti a noi solo dopo la scoperta
dell’America e quindi sconosciuti per loro. Questo rendeva una tavola di 2000
anni fa ricca comunque di prodotti come il farro, il cavolo, i fichi, le noci, la
carne, il pesce, ma meno colorata e soprattutto tendente all’agrodolce, specie nelle
famiglie più agiate che potevano comprare ingredienti più costosi o preparare
piatti più elaborati. Ma come facciamo a sapere tutto questo?
La risposta è semplice, da una parte grazie ai molti testi
antichi che sono giunti sino a noi come quelli di Apicio, Marziale, Catullo o
Petronio, nei quali la cucina e il cibo sono l’argomenti principale, sia per quello
consumato in occasioni speciali dai più ricchi sia per quello di uso quotidiano
e presente anche nelle famiglie meno agiate.
Da l’altra grazie ai reperti archeologici, come ritrovamenti
di anfore ed ampolle dei quali possiamo intuirne, attraverso vari indizi, l’antico
contenuto; le raffigurazioni pittoriche che spesso ritraggono scene di
banchetti nel Triclinium, l’antica sala da pranzo della Domus romana.
Ma la
testimonianza più importante resta il ritrovamento di un prodotto alimentare
del passato, un evento molto raro perché è difficile che cibi di natura animale
o vegetale si conservino tanto a lungo da giungere fino a noi, questo è
possibile per dei noccioli, per dei semi, per ossa o lische di pesce, ma per
tutto il resto bisogna necessariamente che si presentino delle condizioni di conservazione
eccezionali che permettano che quel prodotto casualmente arrivi a noi, e questo
è successo per una bottiglia di vino ritrovata in una tomba romana in Germania
del 325 d.C. e per tantissimi alimenti
ritrovati durante gli Scavi di Pompei e di Ercolano e che sono datati 79d.C.
Il motivo sta nell’evento eccezionale accaduto in
quell’anno, quale è l’eruzione del Vesuvio, che in poco tempo ha sepolto tutto
fermando per sempre una giornata di vita normale dei pompeiani intrappolandola
sotto strati di lapilli, ceneri, fango e lava. Non solo case ed oggetti ma
soprattutto resti organici come persone e prodotti alimentari, molti ritrovati
nelle abitazioni, nei Thermopolia cioè i fast food dell’epoca e nei forni della
città. A Pompei in un “Pistrinum”, antico nome dei panifici, più precisamente
in quello di Modestus nei pressi delle Terme Stabiane , è avvenuto il
ritrovamento più importante. All’interno del forno chiuso ancora dallo
sportellino in ferro, furono ritrovati 81 forme di pane a otto spicchi,
carbonizzati ma intatti.
Con loro anche tantissimi semi di miglio, farro,
favino e di veccia anch'essi carbonizzati usati per la produzione del pane. In
altri luoghi degli scavi furono ritrovati piccoli bidoni contenente i colori
anch'essi fatti con sostanze naturali, ma anche fichi, chicchi di grano, bucce
di melograno e una pigna nell'acqua di Murecine. Alcuni di questi reperti erano
esposti al Museo nazionale di Napoli, altri invece, la maggioranza, sono stati
conservati nel Laboratorio di ricerche applicate della Soprintendenza
archeologica di Pompei.
Quest’anno che ricorre l’Expo che ha come tema proprio
l’alimentazione, sono state creati due eventi museali diversi, uno ad Asti ed
un altro a Milano, accomunati dal tema del cibo nell'antica Roma ma soprattutto
dall'esposizione dei reperti “alimentari” ritrovati a Pompei, Ercolano, Stabia
e in tutta la zona ai piedi del Vesuvio. Andiamo a scoprire di più sulle due
mostre.
Ad Asti la mostra si chiama “Alle Origini del gusto. Il Cibo
a Pompei e nell'Italia Antica”, promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di
Asti e dalla Fondazione Palazzo Mazzetti, luogo dove si svolgerà, e curata da
Adele Campanelli ed Alessandro Mandolesi. La mostra, inaugurata il 7 marzo e
che si potrà visitare fino al 5 Luglio 2015, ha come obbiettivo quello di far
conoscere le abitudini alimentari dell’Italia e delle popolazioni che l’hanno
abitata molti secoli fa, non solo dunque dei Romani ma anche degli Etruschi,
dei Greci e delle altre popolazioni italiche, oltre che mostrare i prodotti
alimentari più usati ed indispensabili per tutti loro come il grano, l’olio, la carne, il pesce o il
vino. Il tutto partendo dalla ricostruzione, con l’uso anche della tecnologia,
di una pranzo nel Triclinium dove ombre
raffiguranti commensali romani sono proiettate dando la sensazione che
realmente stiano banchettando.
Un po’ in tutta la mostra c’è l’uso della tecnologia
unita all'archeologia, come per un vaso greco circondato dalla proiezione di
una imbarcazione o per la ricostruzione di una tomba con il corpo mostrato
nelle fasi di sepoltura e del ritrovamento. Tra i reperti più importanti
naturalmente i resti di alcuni dei cibi carbonizzati ritrovati a Pompei e in
tutta l’area Vesuviana.
Approfondisci con il video:
La mostra di cui si sta invece parlando in questi giorni è
quella attesa per il 21 Luglio 2015 al Palazzo Reale di Milano dal titolo
“Natura, Mito e Paesaggio della Magna Grecia a Pompei” curata per l’EXPO 2015
dall’Università di Milano, di Salerno, dalla Soprintendenza archeologica di
Pompei e dei beni archeologici di Napoli. Durerà fino al 10 Gennaio 2016 e
mostrerà eccezionalmente tutti gli alimenti trovati a Pompei come gli 81 pani
del Forno di Modesto, gli spicchi di aglio, i pinoli, i semi usati per la
farina, pesche, datteri trovati nelle varie abitazioni.
Un evento arricchito
anche da raffigurazioni pittoriche in prestito dal Museo Nazionale di Napoli e
anche da Paestum, come quella della Tomba del Tuffatore proveniente proprio da
Paestum. Un vero e proprio evento arricchito anche da una promessa del
Soprintendente degli Scavi di Pompei Massimo Osanna, cioè quella di
musealizzare a Napoli tutti i reperti organici di Pompei. Una bellissima
notizia per un abitante del Vesuvio come me!
Quisibeve:
Il cibo rivisitato dal Manifesto della Cucina futurista.
a cura di Claudia Cepollaro
Il Futurismo ha come punto base una fiducia illimitata nel
progresso e in tutto ciò che a lui è collegato : la velocità, la tecnologia, il
dinamismo, l’industria e la guerra, quest’ultima vista dai sostenitori del
movimento come evento per sfoggiare le innovazioni militari, non dimentichiamo
infatti che il Futurismo si va collocare in un periodo di guerre terribili
quali la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Oltre al Manifesto scritto da
Marinetti, un anno dopo seguì quello dei “pittori futuristi” e quello del
Manifesto Tecnico della Pittura Futurista firmato da Umberto Boccioni, Carlo
Carrà, Giacomo Balla e tanti altri artisti dell’epoca.
La Cucina Futurista
Inaspettatamente il 28 Dicembre 1930 Marinetti pubblica sul
quotidiano milanese “La Gazzetta del Popolo” il Manifesto della Cucina
Futurista, a vent’anni da quelli precedenti. Perché? Sembra che il motivo sia
stata una cena in un famoso ristorante milanese chiamato “Penna d’Oro”, durante
la quale fu ispirato all’idea che l’atto del mangiare fosse anch’esso una
forma un’arte con una sua precisa
dimensione estetica fatta di regole da seguire. Tale dimensione estetica aveva
come punti cardini la partecipazione, durante il pranzo o la cena, di tutti i 5
sensi e non solo di quelli usati comunemente per mangiare, come l’olfatto e il
gusto, ma anche degli altri tre cioè vista , tatto ed udito. Vediamo le regole
che secondo Marinetti un vero Futurista doveva seguire per vivere al meglio
l’esperienza in tavola :
- L’Armonia
Originale : la Vista
Per Marinetti anche l’occhio vuole la sua parte e la tavola
doveva avere “un’armonia originale” dove i bicchieri, i piatti e la tovaglia
dovevano ricordare i colori o la provenienza dei cibi che avremmo mangiato; i
cibi dovevano essere anche originali tali da stupire l’invitato.
- I
Bocconi Simultanei : il Gusto
Di piccola o media grandezza, i bocconi simultanei dovevano
avere sapori particolari e nuovi tali ricordare il paese di provenienza della
ricetta. Quindi favorì la sperimentazione di nuovi piatti e l’uso di nuovi
attrezzi per crearli. Nel primo caso ci sono esempi di ricette futuriste come
“Il Carne Plastico” uguale al nostro polpettone con l’aggiunta del miele e di una
presentazione nel piatto tale da
renderla un’opera d’arte, infatti fu ideata
dal pittore Fillia che aveva scelto come ripieno undici tipi di verdure per
simboleggiare i diversi paesaggi italiani, o i “Rombi d’Ascesa” un risotto
decorato con spicchi di arancio. Per quanto riguarda i nuovi attrezzi da usare
insieme ai fornelli, Marinetti sarà il precursore della cucina molecolare
grazie al cuoco Jules Maincave che, stanco della tradizionale miscelazione
degli ingredienti, preferì gli accostamenti bizzarri tra le materie prime e
l’uso di ozonizzatori che diano “ sapore di ozono a liquidi e bevande”, lampade
a raggi ultravioletti, elettrolizzatori per “scomporre succhi estratti” e tanti
altri attrezzi usati nei laboratori chimici. MARINETTI ha anche previsto per il
futuro la nascita di pillole che avrebbero sostituito un intero pranzo,
abolendo volumi e pesi oltre che il “quotidianismo mediocrista “ del piacere
nel palato.
- La
Musica e le Parole : l’Udito
Per i Futuristi mangiare significava soprattutto gustare il
cibo, e per farlo al meglio bisognava farlo in silenzio. Era abolito il parlare
di politica o di qualsiasi altro tema a tavola, soprattutto mentre si mangiava.
La musica era preferibile solo nell’attesa tra una portata e l’altra per
permettere al palato di non “distrarre la sensibilità della lingua”. Solo in
taluni casi un piatto doveva essere accompagnato da poesia e musica lieve che
serva per ricordare l’origine e la provenienza della ricetta presentata.
Marinetti poi si soffermò sui nomi da dare ai piatti e anche ai luoghi dove si
mangia, abolì molte parole straniere sostituendole con altre italiane, per
esempio la parola cocktail divenne “polibibita”, la parola Bar divenne
“quisibeve”, il dessert si trasformò in “peralzarsi” e il pic-nic in “pranzoalsole”.
- Il
Piacere Tattile: il Tatto
Toccare i cibi era importante per avere un’esperienza
sensoriale che vada oltre il semplice gusto, quindi erano abolite a tavola
tutte le posate partendo dalle principale come la forchetta e il coltello.
- L’Arte
dei Profumi: l’Olfatto
Prima della bocca il naso, o come scrive Marinetti “nari”,
sono indispensabili per vivere
un’esperienza completa del mangiare a tavola. I
piatti prima di assaggiarli, bisognava annusarli. Quindi il cameriere ne faceva
prima sentire l’odore al commensale e poi posizionava il piatto sulla tavola.
Per di più i piatti dovevano passare veloci e alcune portate potevano non
essere mangiate per evitare ogni obbligo e favorire il divertimento.
Consigliato l’uso di profumi da spruzzare tra una pasto ed un altro per
ricreare il luogo d’origine di un piatto, che poi doveva essere tolto con i
ventilatori.
La Pasta Asciutta bandita dai Futuristi
Oltre che ai sensi, la Cucina Futuristi seguiva una delle
regole principali del Movimento, cioè il disinteresse verso il passato e dunque
verso la tradizione. La Pasta era il simbolo della tradizione italiana, il vero
è proprio simbolo e quindi da bandire. Un po’ come lo era per loro l’arte del
passato o la storia, perché per i
Futuristi importava solo il futuro. Però c’era anche un altro motivo per cui
Marinetti abolì la pasta, ed era un motivo scientifico, la pasta era definito
un cibo molto calorico che faceva ingrassare.
La Cucina futurista doveva impedire che “l’italiano diventi cubico e massiccio” ma snello tale da esaltare le forme del corpo. Diceva Marinetti nel Manifesto della Cucina Futurista : “prepariamo una agilità di corpi italiani adatti ai leggerissimi treni di alluminio che sostituiranno gli attuali pesanti di legno, ferro ed acciaio”. Diceva anche che a Napoli c’era un’area di scetticismo ironico proprio perché la pasta appesantiva il corpo creando questo stato d’animo. Nel Manifesto Marinetti riportò le parole di un medico napoletano dell’epoca chiamato dott. Signorelli che chiamava la pasta “alimento amidaceo” che dava squilibri al pancreas ed al fegato.
La Cucina futurista doveva impedire che “l’italiano diventi cubico e massiccio” ma snello tale da esaltare le forme del corpo. Diceva Marinetti nel Manifesto della Cucina Futurista : “prepariamo una agilità di corpi italiani adatti ai leggerissimi treni di alluminio che sostituiranno gli attuali pesanti di legno, ferro ed acciaio”. Diceva anche che a Napoli c’era un’area di scetticismo ironico proprio perché la pasta appesantiva il corpo creando questo stato d’animo. Nel Manifesto Marinetti riportò le parole di un medico napoletano dell’epoca chiamato dott. Signorelli che chiamava la pasta “alimento amidaceo” che dava squilibri al pancreas ed al fegato.
Tornando ai giorni d’oggi possiamo dire che la cucina
futurista non esiste più, però ha anticipato molti concetti moderni, come
l’idea della cucina molecolare, l’uso di sostanze nell’industria alimentare che
non si trovano comunemente in cucina o anche del mangiare stando attenti alla
salute.
Garum, il ketchup di
2000 anni fa
a cura di : Claudia Cepollaro
Siete
ma stati negli Scavi di Pompei? Se vi capiterà di
andarci, salterà subito all’occhio che in ogni angolo delle strade c’è un Thermopolium, nome delle taverne dell’antica Roma dove si poteva
pranzare o fare uno spuntino. Qual’era
la specialità dell’epoca? Se con una macchina del tempo ci catapultassimo
2000 anni in dietro nel tempo il taverniere risponderebbe sorridente :”senza
ombra di dubbio… il Garum!”
Tralasciando i gusti personali che ogni romano
sicuramente aveva, se teniamo conto delle tante citazioni nei testi antichi del
Garum e i ritrovamenti archeologici delle miriade di anfore che lo contenevano,
era di certo uno dei cibi più consumati.
Come il nostro Ketchup, era una salsa,
densa o liquida a seconda della qualità, usata come condimento da accostare a molti piatti, con la differenza che
nasceva dalla fermentazione di interiora di pesce unito a dell’altro
pesce salato. Indispensabile nella
lavorazione del Garum era il sale, perché, come ci racconta Plinio il Vecchio,
è l’ingrediente che, se dosato nella giusta quantità, non consente al tutto di
diventare una “puzzolente putrefazione”
di “pesci guasti” .
Il Garum è di origine
greca e deriva dal nome di un pesce, il Garon o Garos (γάρον),
che gli ellenici usavano per preparare il famoso condimento. Molti studiosi
hanno visto nella “colatura d’acciughe”
prodotta a Cetara, nella Costiera Amalfitana, la sua parente più stretta, in
realtà forse il sapore è simile ad una salsa di pesce della cucina Vietnamita, il Nuoc Man, che infatti è usata
nell’estremo Oriente sempre come condimento.
Baelo Claudia, la città del Garum
Se esisteva il prodotto c’era sicuramente un’azienda che lo produceva, questo è
quello che hanno trovato gli archeologi a sud della Spagna, nella provincia di Cadice,
precisamente a 22 Km da Tarifa, città che affaccia sullo Stretto di Gibilterra. Li sono stati trovati i resti di un’ antica
città di pescatori chiamata Baelo Claudia.
Oggi i resti sono conservati all’interno del Parco Naturale dello Stretto (Parque
Natural del Estrecho) e oltre a mostrarci tutti gli elementi tipici di una
città romana, ha riportato alla luce i resti di un’azienda che
produceva Garum. Lo si capisce dalle tante vasche profonde e dal
fatto che si trova proprio vicino alla spiaggia. Quindi i pescatori
prendevano il pesce, lo portavano nell’azienda dove lo ripulivano e lo
tagliavano a pezzi , e lo scarto costituito dalle interiora e dalla testa del pesce veniva salato e messo nelle vasche in modo da
aspettare che il contenuto fermentasse per poi venderlo nelle anfore, molte delle
quali sono state trovate nell'Insula
di San Paolo alla Regola a Roma e a Pompei. Quello della Spagna era, secondo Plinio il Vecchio, il Garum
migliore perché, essendo un prodotto di origine greca, la Spagna è
stata dominata dai Fenici e dai Cartaginesi che non usavano tutti
i pesci ma alcuni in particolare, come gli sgombri.
La lavorazione
Sulla lavorazione importanti sono state le
testimonianze Gargilio
Marziale, autore vissuto nel III sec. d.C. che ci dice “Si usino pesci grassi come sardine e
sgombri cui vanno aggiunti, in porzione di 1/3, interiora di pesci vari.
Bisogna avere a disposizione una vasca ben impeciata, della capacità di una
trentina di litri” . Oltre questo sottolinea l’importanza
dell’aggiunta di aromi dal sapore
forte da mettere sul fondo della vasca “aneto,
coriandolo, finocchio, sedano, menta, pepe, zafferano, origano” sui quali
si riverserà tutto i pesce. Il tutto
andrà ricoperto da uno “strato di
sale alto due dita” e “lasciato
riposare al sole per sette giorni”. Per altri venti si dovrà “mescolare”
fino all’ottenimento di un liquido denso che è il Garum.
Più precise sono le Geoponiche, di autore ignoto, che arricchisce il racconto di
Marziale, dicendo che il risultato che si avrà è la formazione del “liquamen”
la cui parte liquida raccolta sarà il Garum, mentre la parte solida diverrà
“allec”. C’era anche la versione casalinga del garum che si ottiene bollendo le
interiora del pesce facendole scolare oppure quella fatta con le sole interiora
del Tonno chiamato “aimation".
Sulla qualità come detto prima, Plinio il Vecchio ne
la Naturalis Historia aveva parlato della Spagna come luogo di produzione
migliore di Garum, anche il prezzo cambiava naturalmente e solo i ricchi
potevano accedervi, come racconta Apicio,il primo gastronomo vissuto tra il 25
a.C E IL 37 d.C che nel suo libro “De re coquinaria” parla
dei suoi ricchi banchetti e di 20 piatti ottimi se accompagnati con il GARUM.
Il garum sociorum, quello di miglio qualità, era usato anche come
ottimo digestivo, disinfettanti, e medicinale contro la scabbia degli
ovini, le ustioni recenti, i morsi dei cani e del coccodrillo, per guarire le
ulcere, la dissenteria e i malanni delle orecchi.